Avevo solo 10 anni e continuavo a torturarmi le mani. Io lì proprio non ci volevo stare.
Ricordo l’enorme sforzo di guardarmi intorno nel vano tentativo di zittire il disagio, ma niente, i miei occhi continuavano a incrociare lo strazio di quel volto morente.
Maledizione, non avrei proprio voluto. L’educazione al “pare brutto” impartita al Sud spesso costringe anche a questo, all’ultimo saluto a un parente in agonia.
Questa cosa me la sono portata dietro negli anni, la vigliaccheria mi ha sempre impedito di interagire con una persona sofferente, giovane o anziana che fosse.
Il via vai di persone silenziose, le labbra di tutti tirate in una smorfia, gli abbozzi di tristezza sui volti accompagnati dalle teste chine, tutto questo mi ha sempre messo una gran voglia di scappare via, con buona pace della filosofia del pare brutto.
Quel giorno di tanti anni fa in uno stanzone vecchio e scuro ero in cerca di un particolare, qualunque cosa che mi distraesse dalla traiettoria di quel letto.
Spostando lo sguardo da una parete all’altra passavo in rassegna le pesanti e orribili tende, gli specchi rigorosamente coperti, la mobilia scura, datata e opprimente, i grani dei rosari che scorrevano fra le dita delle donne di paese.
Sul comò un vecchia foto di un uomo in divisa della grande guerra, una spazzola da toeletta e centrini ingialliti ovunque.
Ogni tanto mi soffermavo sulla coperta. Una coperta verde e pesante che si alzava e abbassava ad un ritmo ormai impercettibile sul piccolo corpo.
Chissà se sta ascoltando i miei pensieri?
Chissà se si sta accorgendo che sto guardando le sue cose?
Che ingenue che sono le divagazioni di una bambina. Ho solo 10 anni, sono lontana da casa e mi trovo al capezzale di una [sconosciuta] prozia morente.
Fisso lo sguardo sul pavimento cercando di ricalcare con le scarpe i motivi geometrici dei vecchi marmi, quando le anziane presenti si alzano all’improvviso e in perfetta sincronia. In silenzio invitano tutti ad uscire.
Sta morendo?
Mi sento prendere per mano da mia nonna e attraversando il corridoio fra i bisbigli concitati, riesco a cogliere solo la parola “arrivata”.
Nel salone tutta la vecchia guardia del paese ha lo sguardo rivolto alla porta d’ingresso. C’è una figura ferma sull’uscio.
La casa è completamente oscurata dalle imposte tappate, e la luce lì fuori è troppo forte. Non potevo vedere chi fosse. Ma potevo indovinarne la sagoma: era un’anziana donna sicuramente.
Alta, magrissima quasi ossuta.
Quando finalmente entra in casa, mi rendo conto che è completamente avvolta da un mantello nero. Senza volerlo mi ritrovo a stringere la mano di nonna, se non era quella la Signora con la Falce ci mancava poco!
Non saluta nessuno, neanche guarda i presenti. Quando mi passa accanto non posso fare a meno di provare un brivido freddo, nonostante fosse agosto.
È solo quando prosegue oltre che noto la figura dietro di lei, più piccola. Molto più piccola e più giovane.
Sembrava la donna anziana in versione in miniatura, con l’unica differenza che aveva il volto scoperto.
Mi colpiscono subito i suoi occhi scuri e grandi dallo sguardo vuoto e truce al tempo stesso.
Le due figure scompaiono oltre il corridoio e si chiudono nella stanza di Zia T.
Mentre tutti escono dalla casa, dal corridoio si ode chiaramente un lamento sommesso, quasi una nenia, una litania. Una triste ninna nanna della morte.
Non ricordo bene cosa accadde dopo.
Sono passati oltre 30 anni e tante (troppe) persone morenti ho salutato da allora, ma quell’episodio lo dimenticai completamente. Seppellii gli occhi di quella donna in qualche remota partizione del mio cervello.
Fino a qualche tempo fa…
La ninna nanna della morte
È un comune camposanto quello della città in cui vivo.
Classiche tombe allineate, loculi a parete, ossari comuni e cappelle familiari, alcune delle quali dei secoli scorsi.
È proprio una di queste che attira la mia attenzione ogni volta che faccio visita ai defunti (visita che con gli anni purtroppo dura sempre di più).
La cappella è interrata, si trova al di sotto del piano di calpestio del cimitero, insomma una sorta di cripta.
C’è questo piccolo vezzo che mi piace tanto, una decorazione a forma di pipistrello apposta sull’inferriata di un piccolo lucernario.
Con gli anni ho scoperto che non si tratta di una cappella normale, d’altra parte chi metterebbe un pipistrello a guardia dei lucernari?
Dicevo, tempo fa notando una finestra aperta ho potuto sbirciarne gli interni. Leggendo le incisioni sulle lapidi ho scoperto che non è una comune cappella familiare, ma una cappella in cui riposano le spoglie di diverse suore. Il pensiero mi fa sorridere, l’associazione pipistrello-suora è fra le cose più buffe che mi sia capitato di concepire.
Buffe come le gazze ladre. Quel pomeriggio assolato ciarlavano come al solito saltellando da un cipresso all’altro. Adoro le gazze, sono esseri così eleganti e al tempo stesso goffi e impacciati con quella lunga coda dai riflessi cangianti del petrolio.
Come al solito il mio percorso mi porta a passare davanti a quella che ormai ho ribattezzato Nosferatu Chapel e come da consuetudine, mi affaccio per sbirciarne l’interno.
Con enorme sorpresa mi accorgo che c’è un’anziana donna seduta con il viso rivolto verso una delle sepolture sulla parete.
È di spalle, ma riesco a intravederne la statura. È davvero molto alta.
Nel silenzio totale del cimitero, la sento chiaramente lamentarsi, sembra stare talmente male che posso vederla muoversi al ritmo di un ipnotico dondolio del busto.
Senza pensarci due volte aggiro il perimetro della cappella, apro il cancelletto accostato e discendo l’antica scalinata in pietra.
L’ambiente è molto umido e complice l’eco causato dalle pareti di marmo, ora posso riconoscere non un lamento ma un canto.
Si sente bene?
La donna smette di cantare, ma non di ondeggiare avanti e indietro.
Signora, si sente bene?
Scendo gli ultimi gradini e mi avvicino, ora la vedo meglio. I suoi occhi scuri sono enormi nonostante la pelle appesantita dalle rughe.
Abbasso il tono della voce per non causare fastidiosi rimbombi.
Mi perdoni, credevo di aver sentito dei lamenti, vado via subito.
Faccio per voltarmi e andare via, ma lei mi gela afferrandomi il polso sinistro.
Fermatevi, sedetevi qui.
La sua voce è chiara, perfetta, forte e con un tono appena accennato d’imperiosità.
Mi indica una sedia talmente piena di polvere che il legno ormai è completamente imbiancato.
Grazie ma devo scapp…
Non riesco a finire la frase.
La donna non mi stacca gli occhi di dosso, quegli occhi così scuri e grandi da freddarmi la cassa toracica peggio dell’umidità nella cappella.
In quell’istante li riconosco, riconosco quegli occhi incrociati tanti anni fa in uno sperduto paesello del Cilento.
E adesso che la guardo meglio, noto anche i suoi abiti.
Caspita è una suora! Non so perché, ma sono completamente bloccata, non riesco a formulare né parole né pensieri.
È la donna a rompere il silenzio:
Non ce la faccio. Non ci riesco.
A fare cosa?
….
Signora?
….
Posso aiutarla io! Mi risponda, non riesce a fare cosa?
A perdonarmi.
Suona la sirena del cimitero, mancano 10 minuti all’ora di chiusura.
Forse perché la donna per un attimo ha abbassato la guardia, forse perché la sirena del cimitero ha spezzato quell’atmosfera per me tesissima, ma io prendo coraggio e sparo una raffica di domande inopportune:
Lei somiglia tantissimo ad una persona che ho incontrato tanti anni fa.
Posso chiederle se ha vissuto a S.?
E poi affondo con l’ultima domanda:
cosa stava cantando prima?
La donna non mi guarda, ma devo aver toccato qualche tasto dolente perché giuro di aver visto il suo mento tremolare, quasi a trattenere un moto di pianto.
Poi si gira e mi fissa per quelli che mi sono sembrati minuti interminabili.
Suona la sirena per la seconda volta, 5 minuti alla chiusura del cancello.
Finalmente l’anziana donna sconosciuta mi stacca quegli occhi di dosso, torna a fissare il pavimento polveroso e ripiomba nel suo mutismo.
Poche volte nella mia vita mi sono ritrovata in una situazione in cui non sapevo cosa fare. E questa è una di quelle.
Suona la sirena per la terza volta.
Signora, il cimitero sta chiudendo, bisogna uscire.
Senza neanche guardarmi, con la mano mi fa un cenno carico di fastidio e mi invita ad andare via.
Esco sconcertata da quella cappella e da quell’impasse in cui mi sono cacciata.
Mentre cammino a passo svelto verso il cancello del cimitero non posso fare a meno di rimuginare sugli occhi di quella donna. Era lei, ne sono sicura.
È la giovane donna che tanti anni fa si chiuse in quella camera con la prozia morente e con quell’altra.
Più tardi bloccata nel traffico cittadino, afferro il telefono e chiamo mamma.
Ciao, ti ricordi di Zia T.?
Sì, poverina, era malata e gli ultimi giorni ha sofferto tantissimo. Perché me lo chiedi?
Ti ricordi quel giorno, quelle due donne vestite di nero?
….
Mamma ci sei?
Sa’ femina Agabbadòra
Che? Non parlarmi nel tuo dialetto sardo, lo sai che non ti capisco!
Allora cerca su Google.
La sottile differenza fra omicidio e eutanasia
Quello che mi restituisce il buon Google è un mix tremendo di fascino, leggenda e crimini della misericordia.
Mia madre è sarda e per questo mi cita l’Agabbadòra, ma scopro che nel dialetto del Sud Italia “lei” si chiama Strangulatòra.
Secondo voci di popolo, la femmina Agabbadòra è una sorta di sacerdotessa, una professionista della morte che veniva chiamata per porre fine alle agonie di un malato terminale: acabar in sardo (o in spagnolo) vuol dire infatti finire.
Questa donna avvolta completamente in un mantello nero richiamava immediatamente alla figura della morte, ed è per questo che per superstizione non riceveva compensi per il suo lavoro.
Già, lavoro!
Un lavoro crudele e infausto, certo! Ma spesso indispensabile, soprattutto nelle società rurali in cui era difficile reperire farmaci e meno che mai cure palliative per alleviare l’agonia di un malato.
Chissà quando accadde di preciso? In che epoca?
Quando si decise che qualcuno si doveva pur incaricare di assicurare una buona morte fra il silenzio e la connivenza dei familiari?
Solitamente era una donna sola o vedova, grande conoscitrice dell’anatomia e sovente anche levatrice.
Che ironia, dare la vita e toglierla in una sola professione!
Questa donna arrivava in silenzio, vestita di nero e accompagnata da una giovane adepta che in futuro avrebbe preso il suo posto.
Il rito prevedeva di spogliare la stanza della persona “da terminare” di tutte le figure sacre, nella credenza di facilitare il doloroso distacco fra spirito e corpo.
Quello che avveniva nella stanza era un segreto fra la professionista della morte e il suo “cliente”.
Si dice che l’uccisione avvenisse tramite una pratica tanto tremenda quanto sensuale al tempo stesso.
L’Agabbadòra cullava il moribondo come un bambino e poi lo stordiva con la sua triste ninna nanna della morte. Il potere di questa sorta di “ultima madre” era talmente potente da far regredire l’agonizzante allo stato infantile. E lì lei lo uccideva strangolandolo fra le sue cosce.
Direi la forma erotica più alta per accompagnare un’anima dall’altra parte!
Altri invece sostengono che la morte avvenisse tramite soffocamento con un cuscino, oppure con un colpo sferrato con precisione chirurgica sulla zona parietale con una mazza rituale di legno di ulivo.
Eppure questa forma di eutanasia non è l’unico crimine consensuale apparso in Italia, si dice che sempre in Sardegna, a tutti gli anziani 75enni venisse praticato il geronticidio! Ma di prove storiche ovviamente neanche a parlarne.
Google, e più nello specifico Wikipedia, sostengono che episodi accertati di eutanasia con il consenso popolare si sono avuti a Luras nel 1929, ad Orgosolo nel 1952 e ad Oristano nel 2003.
Chissà perché non faccio fatica a credere che quella della Agabbadòra sia ancora un’industria in attività.
Gli antropologi oggi non hanno pareri unanimi. I più sostengono che la dama della buona morte non sia mai esistita, ma frutto di credenze e chiacchiere di paese da scambiarsi davanti al focolare. Insomma una figura storicamente incerta, che tutti conoscono, ma che tutti fanno finta di non conoscere.
Stiamo parlando di tradizioni popolari chiaramente in estremo contrasto con la giustizia e la legge (sia temporale sia spirituale).
Ecco perché il tema è stato e resterà per sempre un tabù, pur essendo il diritto al suicidio assistito un argomento tremendamente attuale.
Anche se ancora non riesco a credere di aver quasi assistito ad un episodio ai confini fra omicidio e eutanasia, io non mi sento di condannare i fatti.
Ci sono storie e storie, alcune delle quali restano confinate al rango di chiacchiere di paese, ma quella della femmina Agabbadòra o Strangulatòra è una storia a cui credo eccome e non mi sogno lontanamente di giudicare il compito controverso e gravoso di queste figure.
Stiamo pur sempre parlando di donne credenti che al di là di strani riti e pratiche come la ninna nanna della morte, commettevano un atto di estrema e somma pietà.
L’eutanasia non era considerata atto di barbarie in una società arcaica come quella sarda o del Sud Italia dei secoli scorsi… perché mai deve esserlo oggi nella nostra società civile e così evoluta?
La vita è un dono, certo, ma in certe circostanze donare la morte non può e non DEVE essere considerato moralmente inaccettabile. Mio pensiero.
L’ultimo saluto
Alcuni mesi più tardi dopo il fatto del cimitero, mi ritrovo nuovamente nell’entroterra cilentano.
La scusa di una sagra di paese mi riporta a S. dopo tanti anni.
La trovo molto diversa da come la ricordavo. Il lavatoio pubblico, gli stemmi nobiliari sui portali antichi, le strade acciottolate, non c’è più nulla. A parte qualche scorcio, niente è più come 30 anni fa.
Supero il quartiere con l’abitazione di quella vecchia prozia senza neanche accorgermene.
Spero che la sua casa non sia stata abbattuta o peggio, restaurata da qualche architetto con velleità strambe.
La festa del paese diffonde profumi deliziosi in ogni vicolo, ma io non posso fare a meno di pensare a quell’episodio, a quella donna incontrata nel cimitero e alla ninna nanna della morte.
Mentre passeggio nel centro storico mi imbatto nel bassorilievo di una Melusina, la sirena bicaudata famosa per essere il logo di Starbucks.
Non è una cosa che si vede tutti i giorni, così mi allontano per inquadrarla meglio con il mio smartphone.
Mentre indietreggio urto sbadatamente un uomo in compagnia di due bimbi piccoli.
Mi scusi!
Di nulla! Turista a caccia dello scatto perfetto per Instagram?
Sì. Gli sorrido mentendo spudoratamente.
Sono nel direttivo della Pro Loco, più su c’è un palazzo nobiliare con un bel portale adornato di antichi stemmi araldici, non perda tempo con la vecchia casa della strangolatrice.
Sento ogni singolo capello che mi si rizza sulla testa.
Riesco appena a mettere giù lo smartphone quando l’uomo continua a raffica senza fermarsi:
Tutti a fotografare questa casa. Sa che una sua discendente vive ancora qui? Si chiama Suor P. ma non è in paese oggi.
Riesco solo a sgranare gli occhi in un’eloquente espressione interrogativa. L’uomo sembra coglierla al volo perché senza che chiedessi nulla mi dice:
è partita all’alba per raggiungere una lontana parente in fin di vita. Ci teneva a darle l’ultimo saluto.
Death Lullaby: La ninna nanna della morte – I Racconti del 31 Ottobre Collection
Avevo sentito parlare di questa tradizione macabra e mi sono sempre chiesta se questa figura della strangolatrice esistesse ancora oggi. Evidentemente è proprio così. Fa accapponare la pelle il pensiero della freddezza necessaria, ma allo stesso tempo sono la prima a dire che se dovessi trovarmi in fin di vita, sofferente e senza speranze, allora vorrei che un angelo della morte mi aiutasse a smettere di soffrire (magari con una dose di sonnifero e non con una mazza di legno…)
Mi domando anche se dalle mie parti ci sia una figura simile, ma non ne ho mai sentito parlare, nemmeno dalle mie nonne, ma potrei chiederlo a quella che mi rimane.
Un racconto da brivido, come sempre.
Buon weekend
A quanto pare esiste eccome, almeno fino a 30 anni fa e almeno in quelle realtà sperdute dove l’incomprensibilità di certe leggi non fa paura.
Fa accapponare si quella freddezza glaciale però l’idea che mi sono fatta (o almeno mi piace pensare che sia così) è che questa sorta di “madre” agisca con ferma dolcezza.
Sarebbe un enorme gesto di civiltà “legalizzare” l’operato di questa professione, certo con i farmaci intendo, soprattutto con questo male del secolo che riduce un malato a perdere completamente la dignità. Io credevo che le cosiddette “cure palliative” fossero un qualcosa del genere e invece proprio di recente ho scoperto che così non è… 🙁
Ti ringrazio per aver letto Silvia e goditi Israele, terra speciale! 😉
Che meraviglia questo racconto Orsa, adoro il tuo stile di scrittura! Se ti interessa l’argomento ti consiglio il romanzo “Accabadora” di Michela Murgia. Bellissimo e struggente.
L’ho scoperto proprio mentre cercavo notizie su G! Non lo conoscevo e ancora non l’ho letto ma ho intenzione di farlo quanto prima! E mi è parso di capire che ne hanno tratto anche un film! *_*
Ti ringrazio tantissimo Giulia! Buona festività, un bacione dall’Italia :*
Ma, Orsa, come scriviiiii!?!? Dovresti scrivere di mestiere… Se non un romanzo, almeno dei racconti! Sei mitica, tieni incollati alla pagina con la gambetta in movimento sotto la scrivania e con le mani via via sempre più contratte! Complimenti davvero: a partire dal titolo, che è un ossimoro agghiacciante, hai scritto un racconto davvero speciale!
Grazie di cuore Elena per il bellissimo complimento! La gambetta che si muove sotto la scrivania mi ha fatto morire! 😛
Non ti nascondo che mi piacerebbe tantissimo scrivere, ma per lavoro (faccio la proofreader) non ti dico quante pagine e pagine roba leggo al giorno che a fine giornata ho gli occhi distrutti…che poi ironia della sorte mi capita di commettere gli stessi strafalcioni sui miei testi (a volte me ne accorgo, altre no) 😉
Grazie ancora e buona festività 🙂
Ed io che credevo che per quest’anno il racconto sarebbe stato meno scary!!! Sarà che davvero dobbiamo temere più del mondo dei vivi che di quello dei morti! Ho conosciuto la figura dell’accabadora 7 anni fa tramite il racconto della Murgia. Prima di allora questa figura femminile mi era del tutto sconosciuta! Ovviamente il legame con la Sardegna (sentimentale per me, di radici familiari invece per te) ha attirato sempre di più la mia curiosità per questo personaggio reale ed oscuro così presente nella società sarda. Mi fa un po’ senso pensare che la parola sarda che uso di più è Accabadda! Comunque non mi ero mai posta la domanda su come però arrivasse alla morte. Il nome nella versione campana mi ha tolto questa curiosità. Racconto magistrale cara Daniela. Come ha detto qualcuno già, tu sei una scrittrice nata! Io mi divorerei i tuoi romanzi.
A me la notifica WordPress è arrivata precisa precisa alla mezzanotte.
I brividi mi sono corsi lungo la schiena, soprattutto al momento del secondo incontro!
Davvero usi la parola Accabadda come intercalare? Hahahah che storia! Non immagini quanto avrei voluto argomentare con mio nonno sulla Sardegna ora, con la maturità degli anni! Avrei voluto chiedergli un monte di cose sulla sua vita prima di trasferirsi “sul continente” 😉 Io invece quel romanzo l’ho scoperto proprio cercando su Google, l’ho ordinato in libreria e sono in attesa di andarlo a ritirare. Nelle ricerche ho anche scoperto che c’era una versione Salentina di questa figura sai? Sono convinta che sia esistita (e che esista ancora in verità) in ogni regione italiana…
Ieri ci sono ripassata davanti alla Bat Chapel ma era chiusa nonostante la giornata della commemorazione, altrimenti mi intrufolavo di nuovo! 😉
Ti ringrazio tantissimo per i complimenti Simona ma soprattutto per aver letto il pippone 😛
Ma quale pippone e pippone!! Un racconto che scivola meravigliosamente. Ormai ho un sacco di parole sarde nel mio vocabolario. Ogni tanto mi dimentico di circoscriverle solo a George e le uso qui da me, provocando sguardi straniti
Posso immaginare benissimo le espressioni degli altri quando usi le parole sarde decontestualizzate! 😀
Grazie ancora! <3
Non conoscevo questa “tradizione” inquietante, fino all’ultimo mi hai tenuta incollata al racconto, non comprendevo se si trattasse di realtà o fantasia! Prendi seriamente in considerazione di farne un libro di racconti horror, scrivi benissimo!
Grazie Serena! Non so dirti se “purtroppo” o “per fortuna” ma è una storia vera quella di questa figura! Dietro le recenti ricerche ho scoperto che nel secolo scorso c’era una “strangolatora” che operava anche nella città in cui vivo, ho anche individuato la sua abitazione nel centro storico che è rimasta chiusa praticamente dal terremoto! O_O Devo trovare il modo di entrarci 😉
Grazie ancora per i complimenti! :*
Devo assolutamente leggere il romanzo che sopra ti consiglia Giulia, voglio saperne di più su questa figura misteriosa e affascinante, per quell’equilibrio sottile tra vita e morte, come dici tu. Una professione infausta, certamente, ma se ci pensa bene in fin dei conti non facevano (o fanno) che dispensare amore. Lo stesso atto di strangolare tra le cosce richiama il parto, ma al contrario. Uno dei tuoi pezzi più belli di sempre Orsa. Hai la scrittura nel sangue❤️
Leggilo Alessia, io l’ho quasi terminato ed è bellissimo! C’è anche il film (tratto dallo stesso romanzo) ma ancora non l’ho visto 😉
Il senso di pietà appartiene da sempre all’essere umano ma sembra che più la nostra civiltà diventi “evoluta” e più il concetto di “buona morte” sia considerato un tabù da nascondere dietro la falsariga dell’etica e della morale. Ma ormai è come tentare di nascondere un tir dietro un palo della luce 🙁
Ma ragazzi con tutti questi complimenti…così ci credo davvero! 😉
Buonanotte e grazie di cuore Alessia!❤️
Il lavoro dell’Agabbadòra (mi piace la parola sembra portoghese “acabadora” colei che conclude/finisce… acabar=finire) è una figura che esiste in molte culture del mondo. Così come colei che fa partorire era un “mestiere da donne”. Mi piace pensare che la donna porta e toglie la vita, è mistico e potente come messaggio.
Quando racconti queste storie non capisco mai dove finisce la realtà ecomincia la tua magica penna (tastiera) fantasiosa. 😉 Complimenti!!!
p.s: guarda cosa ho trovato? 🙂
Ma infatti il richiamo alla lingua spagnola è accertato e tu mi dici che richiama anche il portoghese! La Sardegna è sempre stata lontana linguisticamente e culturalmente dall’Italia…mi domando come facciano a non essere seriamente tentati di “mollare gli ormeggi” 😉
A proposito di tastiera, sai che ci sono delle lettere completamente consumate sulla mia tastiera? Devo provare a metterle insieme e vedere cosa esce 😛
Il romanzo della Murgia l’ho ordinato appena l’ho scoperto su Google, ora è sul mio comodino ed è quasi finito, l’ho divorato subito! 😉
Ti ringrazio per i complimenti Lilly! <3
Mamma mi che racconto avvincente, mi hai completamente stregato.
Questa figura non la conoscevo, mi sa che cercherò anche io il libro che ti hanno consigliato.
Io ti volevo fare i complimenti per il racconto, per la storia (di cui ignoravo totalmente), delle foto al posto giusto nel momento giusto. Ma ti dirò che con l’ultima frase mi hai congelata, come uno stoccafisso proprio!
ahahhahahah mi dispiace, ormai l’effetto sorpresa è svanito ma magari potrà tornarti utile la prossima estate in uno di quei giorni afosi…vieni qui e ti geli! 😛
Grazie di cuore Marghe! 🙂
Sie, vengo costì…. ci tengo al mio sonno! Ahahahah
su “costì” stavo cadendo dalla sedia della scrivania hahahahhah! 😀